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Interviste

Francesco Vincitorio - Dice Dadamaino
Miklos N. Varga - Prima era l'alfabeto, poi...
Marco Meneguzzo - Per un'idea di costellazione. Dialogo con Dadamaino
Jole de Sanna Intervista con Dadamaino
Luca Massimo Barbero Dadamaino. Un'intervista tra vita & pensieri.....
Francesco Vincitorio - Dice Dadamaino
Francesco Vincitorio
Dice Dadamaino
“L’Espresso”, n.36, Roma, 9 settembre 1980

V. Più di vent’anni fa, anticipando molti altri, sei andata “oltre l’ Informale”. Nel ’63 alla Biennale di S. Marino, a differenza della maggioranza, non ti sei “ingruppata”. Nel ’69 alla manifestazione “Campo Urbano” unica, hai scelto il lago. Ieri, “ante litteram”, alla tecnologia hai preferito la manualità. E adesso?

D. Mi limito, ancora una volta, a delle proteste mute. E da 2 anni faccio dei segni-lettera. Con questi piccoli segni riempio tete e fogli, rigo dietro rigo, lavorando spesso 8 ore di fila. Li lascio fluire secondo l’istinto, il tempo, il ritmo vitale della mia giornata. Non è un diario ma tutte le cose, tutti gli accadimenti quotidiani. La mano ora è più leggera ora più pesante, il segno è più sottile o più nervoso.

V. Come sono nati questi segni?

D. Un giorno, spontaneamente come una cellula nella testa, mi è venuto fuori un segno verticale e uno orizzontale. L’ho chiamato “Tell al Zaatar” perché era nato proprio nei giorni di quella strage dei palestinesi. E in quel segno, ripetuto ossessivamente, sentivo concentrato tutto il mio orrore, il mio sdegno. Un anno dopo, all’improvviso, ne sono usciti altri 3 o 4. Adesso sono arrivata a 12. E dietro ciasuuno di essi sento premere tante cose. Per esempio, le censure e i molti silenzi che subiamo. Quella libertà che forse è soltanto utopia. Ci sento le speranze che il mondo andasse in un certo modo. C’è pure una riflessione su questo secolo nel quale sono successe e bruciate esperienze di ogni genere: cose giuste, cose meno giuste. C’è un po’ la storia della mia, della nostra vita. Per questo li ho chiamati “i fatti della vita”. L’ultimo lavoro è composto da 138 tele e fogli di varia misura.

V. Perché 138 e non 50 o 227?

D. Non lo so. Ad un certo punto sento che quel lavoro è finito. Di recente, ne ho fatto un altro, per una mostra in Germania, di 62 fogli. Anche su come poi li raggruppo sulla parete non so dirti gran che. Forse in quella vita più profonda e vera che cerco di esprimere la quantità, l’ordine non hanno molta importanza. Quei segni vogliono essere nuclei di verità. E un nucleo di verità vale l’altro.

Miklos N. Varga - Prima era l'alfabeto, poi...
Miklos N. Varga
Prima era l’alfabeto, poi…
(Intervista a Dadamaino)
“Gala International”, n.96, Milano, giugno 1980

V. Milanese, con ascendenti mitteleuropei, sia per educazione familiare che per formazione artistica tu rappresenti fin dagli esordi (1956) il superamento della condizione femminile emarginata per esprimerti, liberamente, senza pregiudizi di parte, nel contesto delle ricerche più avanzate durante la seconda metà degli anni 50. Vuoi ricordare quel periodo, ricordando te stessa e i tuoi “compagni di viaggio”?

D. Sì, è stato il periodo della mia giovinezza, quindi alternativamente felice ed infelice. Comunque, dal 1958 sono stati Castellani, Manzoni, Colombo ed alcuni del gruppo Zero. L’epoca era dominata dalla diatriba fra neorealismo ed informale, problematiche che respingevamo. Di conseguenza abbiamo lavorato soli, emarginati dalla critica e dalle gallerie, tant’è che Piero ed Enrico, profittando di uno spazio offerto gratuitamente per circa un anno, hanno aperto l’Azimuth, dove anch’io esposi nel 1959. Malgrado l’emarginazione eravamo molto vitalistici e praticamente sempre insieme (una comune ante-litteram) a lavorare e a divertirci. Allora si spendeva talmente poco che potevamo passare le notti a discutere bevendo e mangiando, o dando affollate feste, anche se i nostri fondi erano assolutamente inconsistenti. Ma credevamo talmente nel nostro lavoro che la stima di Fontana, peraltro lui pure emarginato, ci era di sufficiente conforto. Non ti so dire se mancando questa sarebbe stato più difficile. Personalmente credo che non avrebbe cambiato la nostra determinazione.

V. Entriamo negli anni ’60. Esperienze ottico/cinetiche, ricerche sulle molteplici varianti del colore, progetti componibili e altro ancora. Insomma, si direbbe che in quegli anni la tua attività fosse multisignificante, aperta alla sperimentazione dei materiali in funzione del linguaggio. Allora si parlava molto di semiologia, di semantica, di rifondazione dei codici della comunicazione visiva. Qual era il pensiero ricorrente o, se preferisci, la tua idea fissa?

D. Ecco, agli inizi degli anni ’60 le mie ricerche mi portarono a scoprire il movimento virtuale. Scoperta peraltro condivisa da altri artisti di vari paesi, con cui fondammo la
Nuova Tendenza. Scopo di questo movimento era tra l’altro la “ricerca continua”, per me particolarmente congeniale. Ho sempre ricercato: materiali, forme, situazioni, tutto quello che si poteva. Ho fatto l’optical fino al 1965, quando mi sono resa conto che stava diventando una sorta di iterazione tematica. Oggi queste ricerche sono obsolete ma, se penso che da questa indagine fenomenologica è scaturito un nuovo modo di “vedere”, credo che prima o poi si dovrà riconsiderare con attenzione questo momento che ci è stato rapinato dai mass-media senza che noi, i creatori, ne traessimo vantaggi. D’altro canto non avevamo dietro nessuna sponsorizzazione imperialista come ha avuto la Pop art… Dal ’67 al ’74 ho ricercato nella cromatologia, fino ai rilievi e qui, a scoppio ritardato rispetto al fatidico ’68, mi sono domandata se la geometria, peraltro necessaria al genere di analisi che sviluppavo, non fosse uno schermo dietro cui nascondermi per paura di avere coraggio. Debbo precisare che per qualche anno ho fatto militanza politica praticamente a tempo pieno. Nel bene e nel male è stata un’esperienza che ha trasformato la mia Weltanschaung, ma ripeto, forse per questo tipo di interessi ed attività che mi prendevano molto tempo, i riscontri li ho avuti in ritardo. La mia idea di quegli anni? La sperimentazione.
Ed oggi presumo fosse il praticantato necessario per giungere ai risultati attuali. Personalmente ritengo che le idee non cadano dall’alto e, se anche venissero come folgorazioni, occorre lavorarci sopra molto: analizzare, verificare, scartare, riflettere, scegliere…

V. Cambiano le ricerche, le sperimentazioni, i linguaggi. Cambiano anche le mode, i “sistemi dell’arte”, i modi di comportamento. Ebbene, ti chiedo, in che misura e per quali “versi artistici” tu pensi di essere cambiata, riferendomi alle rimozioni dell’ “inconscio razionale” (come dici tu) che caratterizzano l’inizio del tuo “alfabeto della mente”?

D. Come ti dicevo, nel 1974, quando facevo i cromorilievi, che tra l’altro avevano pure un discreto mercato, ho sentito la geometria come una costrizione; ma come uscire da ciò che tu stesso avevi codificato? Ho disegnato per un anno intero, provato e riprovato, e più lavoravo maggiormente mi insabbiavo o regredivo. Un disastro. Ma io sono una persona che si dichiara vinta solo davanti alla morte, così ho attraversato la crisi continuando a lavorare, finchè un certo giorno ho buttato via riga e tiralinee per fare un disegno a mano libera: segni orizzontali e verticali che si sono sempre più rarefatti. Era di nuovo la “tabula rasa”, come gli squarci del ’58 in attesa di qualcosa, non avevo la minima idea di cosa, pur intuendo che qualcosa doveva accadere. C’è un altro particolare: l’insorgenza del movimento femminista. Senza farne parte e neanche troppo condividerlo, va detto che per far l’artista una donna doveva, e forse ancora deve, dimostrare maggiore credibilità di un uomo e di conseguenza cercare di emulare o che so, tentare di essere anche più brava, o meglio, più perfezionisticamente professionista per essere attendibile. Affiorata e presa coscienza di tale realtà, ho lavorato come sentivo, senza preoccuparmi di essere più brava o meno brava: dovevo essere io e basta. Intendiamoci: sono sempre stata io, coi difetti e qualità, se ci sono, caratteriali, ma questo handicap, faticosamente come ti dicevo prima, si è dileguato. Anche se non me l’ero mai posto o l’avevo rimosso, non v’è dubbio che il problema esisteva. Nel 1976, sotto la spinta emozionale determinata da un evento politico, poichè la politica è l’altra passione della mia vita, ho tracciato un segno, ossessivamente, riempiendo gli spazi fino ai margini. Da questo segno ne sono scaturiti altri, grafemi che ho inventato lasciando fluire l’inconscio, che a tutt’oggi sono tredici. Dico lasciando fluire l’inconscio perché questi grafemi che chiamo l'”alfabeto della mente” non li cerco, aspetto che affiorino dal profondo spontaneamente. Non so mai se l’ultimo è veramente tale.

V. Dall'”alfabeto della mente” ai “fatti della vita”. Il tuo sismografo registra pulsioni e stati d’animo, come se i grafemi affioranti dalla mano fossero altrettanti impulsi mentali alla ricerca immaginante di una comunicazione primaria. Ancora una volta il “segno” è all’origine del comunicare. Non è così?

D. I “fatti della vita” sono superfici di varia dimensione che copro, totalmente o parzialmente (cioè lasciando spazi automaticamente indeterminati) dei segni dell’alfabeto della mente. Ad un certo punto ho pensato di fare un’unica grande opera di cui so la data dell’inizio, 1978, ma non quando finirà (e neanche mi pongo il problema), composto di centinaia, per ora, di lavori; dal microcosmo al macrocosmo, se vuoi, senza presunzione, ma com’è l’esistenza; un microcosmo che si pone innumerevoli macroscopiche domande sul senso della vita, della storia, se poi ha un senso e se è un nonsenso, tentare di frovare un senso al nonsenso. La domanda che mi fai a proposito dei “fatti della vita” ha già in sé una risposta, che condivido.

V. Abbiamo tutti un mondo di cose da fare, ma sappiamo ancora pensare prima di esporre individualmente la conoscenza del fare? Guardati dentro e intorno: dal dentro al fuori, poi dal fuori al dentro. Cosa senti nel vedere, cosa vedi nel sentire?

D. Sì, certamente. In questo periodo terribile (ma chissà se tutti i periodi non lo sono) guai a non pensare, a non riflettere, a non decifrare e trasmettere segnali. Non ci è quasi più consentito di parlare come vorremmo e come dovremmo (non è improbabile che anche per questo ho cercato un alfabeto diverso, eludendo in tal modo le pesanti censure) e i segnali che giungono sono sintomatici. Vedi, ho la sensazione che siamo giunti alla fine, se non della nostra, fisica, di una civiltà, iniqua ma di cui facciamo, volenti o nolenti, parte. Adesso che mi ci fai riflettere, fare del mio attuale lavoro un tutt’unico è come avere cominciato un’operazione che posso forse portare a termine, ma senza pensare che sia qualcosa da lasciare come testimonianza, e sinceramente neanche mi interessa questo aspetto, perché usare la carta e non il marmo o il bronzo mi sembrano peculiari della coscienza dell’inutilità di lasciare tracce per un mondo che comunque, se sarà, è per noi inimmaginabile (forse dico questo per non immaginare il peggio).
Oppure, e questa è l’altra, opposta, contradditoria sensazione che provo, è cominciato già “qualcosa” accanto al cadavere del nostro mondo in decomposizione ma, come i pazienti eccellentissimi, tenuto artificialmente in vita: in gestazione, tra alcuni di noi, altrove; per cui prima di sapere come sarà e celebrarlo con i monumenti, è bene essere di mano leggera, così come si dovrebbe praticare la seminagione. Niente concimi chimici e troppo copiose annaffiature. Guardiamo la terra che si smuove, senza forzare i tempi e gli eventi, mentre spuntano i sensibili germogli.

Marco Meneguzzo - Per un'idea di costellazione. Dialogo con Dadamaino
Marco Meneguzzo
Per un’idea di costellazione. Dialogo con Dadamaino
“Conversari” 1983, Studio Dossi, Bergamo, 1983

M. Con queste tue opere recenti – le Costellazioni – mi pare si sia aperto un nuovo periodo per il tuo lavoro, rispetto all’Alfabeto della mente e ai Fatti della vita: l’iterazione regolare e quasi ossessiva è stata sostituita da un altro tipo di ripetizione, più libera.
D. Con L’Alfabeto della mente avevo costruito una sorta di alfabeto immaginario, una sorta di scrittura fatta di sedici “lettere” – dei grafemi, ma non dei fonemi -, con cui poi ho costruito il muro dei Fatti della vita. Man mano che proseguivo nella costruzione ho fatto ben 560 fogli – riga dopo riga con un rigore relativamente perfetto, ho cominciato a percepire il bisogno di dilatare lo spazio, di raggruppare i segni, di lasciare dei vuoti, quasi alla ricerca di una specie di immagine. Dopo due o tre lavori – che ho chiamato Interludio – sono nate queste forme. Le Costellazioni sono opere alla ricerca di un’immagine immaginaria, dove la psiche è rigorosamente lasciata andare.
Quest’ultima frase può sembrare un paradosso, ma non lo è….
M. … anche molti critici hanno rilevato questa apparente contraddizione, parlando di pulsioni inconsce, ma regolate, controllate. Tu stessa hai parlato, felicemente, di “inconscio razionale’…
D. Matte Blanco, psicanalista sudamericano, ha affermato che anche l’inconscio ha una sua razionalità. Forse non mi spingerei così oltre, ma penso che anche l’inconscio abbia per così dire una tensione verso l’armonia: l’inconscio più libero e più profondo è organizzato. Con ciò, naturalmente, non voglio fare alcun discorso di restaurazione.
M. La tua è dunque la ricerca di una regola più profonda.
D. Certo. Per fare questi lavori, composti di miriadi di segni – che in definitiva sono segnali energetici – ho capito che la logica sottesa all’Alfabeto della mente e ai Fatti della vita non bastava più. Queste forme delle Costellazioni – non so se figurative o astratte, ma non mi pongo il problema – sono il frutto della pura fantasia, della pura creatività, sono pulsioni (a volte anche pulsazioni, perché seguono talora un ritmo cardiaco) che scarico: assolutamente inconsce, ma altrettanto rigorose. Quando nel ’75 ho cominciato ad usare questi grafemi, provenivo da un rigorismo geometrico che non mi soddisfaceva più. Ho gettato compassi e tiralinee e ho tracciato segni a mano libera. Ecco, nelle Costellazioni sono andata più avanti, direi quasi che in questi lavori l’immaginazione ha la priorità sull’opera: penso a queste forme, poi le aggrego con milioni di segni, quasi un “brodo di coltura” di energia e di materia che si spande. Il lavoro è fatto, a quel punto, ma non è finito.
M. Hai parlato di rigorismo geometrico che ti sei lasciata alle spalle. Eppure, guardando opere come Volume a moduli sfasati del ’60, ritrovo certe caratteristiche in nuce, poi sfociate e risolte nelle Costellazioni: ad esempio, spostando il punto di visuale dell’opera, i fori sfasati dell’opera creano riflessi, cambiamenti, aggregazioni che procedono per via di luce e non per geometria…
D. E’ vero, tant’è che anche in quel periodo non fui mai ben accettata nei gruppi come Nuova Tendenza perché non risolvevo il mio lavoro nel razionale geometrico tout court. Ho sempre voluto rompere il giocattolo per scoprirne il funzionamento.
Fatta una regola, distruggerla. O almeno sviscerarla.
I “fustellati” di quegli anni erano fustellati a mano, buco per buco su di una carta millimetrata, e per quanto la mente controlli la mano la cosiddetta imperfezione è inevitabile: sono infatti pieni di sbavature, irregolari…
M. … e c’è comunque l’idea di iterazione, di ripetizione che si ritrovano nei lavori d’oggi…
D. … se si pensa poi che nel montarli sul telaio era sufficiente il calore del palmo della mano per generare delle deformazioni, delle sfasature, che accettavo e che ritenevo strettamente connesse al lavoro e funzionali ad esso, si possono certo ritrovare peculiarità presenti ancor oggi. La struttura, comunque, allora come oggi, è rigorosa.
M. Tornando alle Costellazioni; mi pare che rispetto agli altri lavori – al di là delle analogie già riscontrate – ci sia una sorta di perdita del centro. Non che tu abbia mai privilegiato un centro o un punto privilegiato di visione, ma “centro” può essere considerato anche la sequenza lineare dell’Alfabeto; la sua logica interna, più evidente che nelle Costellazioni. Non voglio parlare di perdita di razionalità; ma di razionalità diversa.
D. Può anche essere una perdita di razionalità, ma non di rigore. Come ho già detto, che l’incoscio sia più libero della parte conscia dell’essere è indubbio, il problema è la misura di questa libertà. Penso che appartenga anche all’inconscio il desiderio della ripetizione, dell’iterazione, di questo tipo di regola. E c’è un rigore interno, nostro, nelle Costellazioni, in quelle forme per certi versi archetipe, che le carica di energia. Arrivo a dire che c’è maggior rigore in questi lavori recenti che in tutti i precedenti.
M. Parlando dell’Alfabeto della mente e dei Fatti della vita; si è accennato da parte di alcuni critici ad un tuo atteggiamento “diaristico” nei confronti del fare artistico. Non mi pare che si possa dire lo stesso per queste ultime opere.
D. Spesso quelle mie opere sono state fraintese. Neppure l’Alfabeto o i Fatti sono diaristici. Non è un diario, ma un’accumulazione di fogli. Non avevo nulla da registrare, se non le pulsioni del momento. Semmai è giusto quello che disse Francesco Leonetti quando parlò di “volantini”. Comunque la mia, se era scrittura, era scrittura ben particolare: si comunicavano emozioni alla mente, non messaggi. In un diario invece si idealizza qualcosa, un fatto, un’azione, un pensiero, ma la vita passa così velocemente che non c’è niente da dire, nulla da idealizzare…
M. Così sei arrivata ad una semplificazione ulteriore: dall’alfabeto, dove il segno è anche segno-simbolo, al gesto – nelle Costellazioni – che è solo segno, puro segno energetico.
D. Il segno delle Costellazioni è pura energia, queste opere non si possono assommare, né accumulare come le precedenti. Non vogliono il segno strutturato – lettere di un alfabeto immaginario – ma solo segmenti d’energia in aggregazione e in esplosione: pretendono il colore, al contrario del bianco e nero delle precedenti, ma non nascono e non finiscono, perché io stessa non so da dove comincio a tracciare i miei segni e dove sono diretti. Solo l’immagine è più esplicita, ma se si stia aggregando o disperdendo non lo so… È un rigore diverso, più nascosto, più libero, quello delle Costellazioni…
M. …è un cosmo, non un caos.

Jole de Sanna Intervista con Dadamaino
Jole de Sanna
Intervista con Dadamaino
Zero Italien. Azimuth/Azimut 1959-60 in Mailand. Und heute, catalogo, Galerie der Stadt Esslingen Villa Merkel, 3 dicembre 1995 – 25 febbraio 1996, Cantz Verlag, Ostfildern, 1995

De Sanna. Insisterei per un attimo sul periodo che precede la prima opera, la tela con la macchia d’oro attraversata in verticale da una linea. Ho visto due tuoi piccoli quadri dall’aspetto lirico-astratto, con ombre e segni leggeri in trasparenza.

Dadamaino. Nel 1954/55 dipingevo i vasi di fiori di mia madre e poi ho tentato, ma era difficilissmo, la pittura astratta. Se hai degli oggetti messi insieme puoi arrivare a una rappresentazione. Ho fatto esercizi di tipo informale ma odiavo la materia, non ho mai dipinto a olio.

J.D.S. Nei Volumi, 1958, usi la tempera, infatti. Nella sequenza che passa tra il 1958 e il 1961 si allineano i Volumi, i Volumi a moduli sfasati, gli Oggetti ottico dinamici. Vorrei portare l’attenzione sulla prima fase, i Volumi, giacché mi sembra che essi centrino la questione che delinea un po’ un’epoca, una generazione che è la vostra, con Enrico Castellani e con Piero Manzoni. Sto pensando alla fase che precede Azimuth e che si compie con Azimuth.
Si tratta di una contrapposizione, vis-à-vis, da una parte di contenuti organici, dell’espressione vitale attraverso l’ampiezza del gesto che disegna il vuoto all’interno di un Volume e dall’altra parte della facoltà di razionalizzare: quello che è dell’istinto naturale e quello che si sottomette alla ragione. Osserva questi due Volumi del 1958 e del 1959: uno ha presa immediata e sicura sull’esperienza con il contorno esterno del buco disegnato da mano ferma. Sembra l’atto di riempire la tela di vuoto. Il secondo Volume sembra incarnare il senso del metodo. La stessa sicurezza vige nell’allineare i buchi in ordine retto, oppure nel farli susseguire in ordine crescente sempre su una o più linee rette.

D. Questa tabula rasa che avevo fatto inconsciamente, dopo si razionalizza, devi darle un ordine.

J.D.S. E’ questo un impegno che condividi con gli altri compagni di strada? In particolare con chi? Stiamo sempre parlando del 1959, una data che conta in modo particolare, sia per i rapporti con Fontana, sia per gli obiettivi che fissano la svolta a una curva generazionale.

D. Per quanto mi riguarda avevo una ripugnanza per la pittura a olio e tutto a quel tempo era fatto con materiale greve, sia la pittura nazionalpopolare, sia l’informale nordico del gruppo Cobra. Ho sempre detestato la materia e ho sempre cercato l’immateriale. Certamente Fontana è preponderante nella storia della mia pittura; quando a 16 anni vidi il suo Cosmo mi resi conto che non era necessario dipingere vasi di fiori. Se non ci fosse stato Fontana a bucare la tela, forse nemmeno io avrei osato. Questo togliere tutta la materia fino al punto in cui si vedono anche parti di telaio era fatto per togliere tutto quello che c’era sopra di materico , tutta la retorica, di ritornare alla tabula rasa, alla pulizia. Fatto questo, mi sembra spontaneo e naturale dare un’organizzazione a questo lavoro, come fare dei buchi in fila e non solo istintivi.

J.D.S. Si procede da una perfetta concettualità, il buco, a un, per così dire, cartesianesimo. Teniamo a fronte ancora i vecchi Volumi e i nuovi, con gli allineamenti di buchi: potremmo ipotizzare che anche su questi ultimi esista un’assonanza con Manzoni. Lui fa la Linea, ma la Linea conserva sempre gestualità, mentre tu no, in te si apre una finestra cartesiana.

D. Facevo le due cose contemporaneamente.

J.D.S. Che cosa dicevate fra voi a questo riguardo?

D. Parlavamo di quello che facevamo ma senza dare un peso particolare, nessuno di noi pensava che queste cose un giorno avrebbero avuto un particolare significato, le facevamo perché ci interessavano, ma senza pensare di mercificarle, facevamo sperimentazioni.

J.D.S. Un altro personaggio ti è vicino in questo momento dal punto di vista degli allineamenti, Enrico Castellani. Castellani nel testo Continuità e nuovo sul secondo numero di Azimuth fa la sintesi di Mondrian, Dada, Surrealismo e Pollock, fa coesistere Mondrian e Pollock, due opposti.

D. Manzoni faceva gli uomini con materiali non più pittorici ma industriali, come ad esempio lo smalto, il catrame, ecc. Castellani invece non è mai uscito dalla pittura tutto sommato, è sempre rimasto pittore, più di tutti noi.

J.D.S. Tuttavia nel suo testo, prima di indirizzarsi verso gli effetti di superficie gestaltica, come avviene nel 1960, anche lui si misura con i due fronti, quello che fa capo a Mondrian e l’altro impersonato da Pollock. Ed è una cosa che in qualche modo richiama la presenza simultanea, in te, del concettualismo del buco e del cartesianesimo metodico.
Insisto a dire metodo e non Mondrian perché si osserva un ragionamento sull’organizzazione visiva.

D. È come se tu facessi una rivoluzione, non una rivoluzione cruenta o guerreggiata, ma anche quella se vuoi. Dopodiché non si può fare una rivoluzione permanente, cerchi di razionalizzare le cose sotto un altro punto di vista, fai l’arte senza più l’olio, senza i materiali tradizionali, ti liberi dall’atteggiamento tradizionale e dopo questo noi tendevamo a essere professionisti come tutti gli altri, anche se facevamo una ricerca artistica che è diversa da quella bancaria. Anche Manzoni, in fondo, quando fa il cotone idrofilo, i quadrati di cotone, la serie dei panini, ecc. fa allineamenti … io penso di avere più punti di contatto con Manzoni che con Castellani.

J.D.S. Ma con il 1960 c’è la tua svolta con i Volumi a moduli sfasati.

D. In questi io volevo fare dei buchi che andassero in prospettiva, esasperare il volume con tre o quattro strati di un materiale plastico. Avevo trovato una plastica da bagno, un materiale semitrasparente, il materiale che allora meglio si avvicinava alla trasparenza. Poi bucavo questi strati con la fustella a mano e li posizionavo nel telaio. II calore della mano sfasava i miei fori, era quindi il caso che determinava la sfasatura.

J.D.S. L’effetto prospettico veniva?

D. Non sempre, perché potevo usare per esempio dei materiali sia in legno o metallo già bucherellati a macchina, potevo posizionarli uno sopra l’altro ed erano perfetti, ma il fatto di trovare questa sfasatura mi aveva interessato, non per un effetto ottico ma perché – ed è questo il discorso che faccio in tutta la mia vita – perché noi pensiamo di fare una cosa e in effetti poi succede che non facciamo mai quello che vogliamo veramente, il caso interviene e sconvolge i nostri programmi.

J.D.S. Tuttavia, nel momento successivo, degli Oggetti ottico dinamici, il controllo è piuttosto marcato.

D. Quello è stato un momento sciagurato della mia vita, perché si era un po’ disfatto il gruppo Azimuth. Castellani aveva avuto subito successo, un successo modesto; Manzoni invece era stato meno riconosciuto.

J.D.S. Con gli Oggetti ottico dinamici il programma, o progetto alla fine cresce e si stabilizza, come avviene anche in Castellani. Allora ci sarebbe da esaminare come si stabilisce la fisica della trasparenza. Attraverso la scelta dei materiali, nella maniera di disporre le parti?

D. Ho fatto una serie di disegni con quadrati bianchi e neri che diventano circolari. Avevano un effetto ottico. Allora ho continuato su questo piano, ho provato a usare l’alluminio, il filo, sempre per dare questo senso di trasparenza. C’era l’idea del movimento che mi attraeva, però senza l’uso di motori. Dopo ho scoperto un lavoro di El Lissitzky dello stesso tipo di cui ignoravo l’esistenza.

J.D.S. Cosa avevi esposto alla Galleria Azimuth?

D. Un Volume.

J.D.S. Quando hai visto la prima mostra del Gruppo N?

D. Quando ho fatto la mia personale a Padova, nel 1961. Non correva buon sangue con i cinetici. Loro si sentivano degli dèi, viziati un po’ dalla critica. La loro ricerca è scientologica, neanche scientifica.

Luca Massimo Barbero Dadamaino. Un'intervista tra vita & pensieri.....
Luca Massimo Barbero
Dadamaino. Un’intervista tra vita & pensieri…..
Museo Virgiliano, Virgilio, 2003

“Dada Maino ha superato la ‘problematica pittorica”: altre misure informano la sua opera: i suoi quadri sono bandiere di un nuovo mondo, sono un nuovo significato: non si accontentano di ‘dire diversamente’: Dicono nuove cose”.
Piero Manzoni 1961

Così Piero Manzoni chiude una sorta di proclama poetico per una mostra di Dada Maino presso il Gruppo N a Padova scrivendo di “verificarsi di nuove condizioni, nuove soluzioni, nuovi metodi”, necessari in quell'”epoca” al fare arte.
Da tempo vado ‘navigando’ in quegli anni cruciali talvolta affascinato dalle opere, altrimenti dai proclami, saggi, scritti e testi che emergono sempre più. Talvolta si naviga a vista, ogni tanto godendo dei materiali che colleghi e storici insieme agli artisti, sempre meno timidamente, vanno presentando e ordinando. Sono quegli anni, curiosamente concitati – tra la fine degli anni Cinquanta ed i primissimi Sessanta – il mare della ‘navigazione’. Un momento di tensioni felici, superamenti, dialoghi e collaborazioni, come più volte scritto; anni unici d’avanguardia, un importante momento del dopoguerra in cui l’Italia va formulando soluzioni artistiche contemporaneamente a nuclei europei ‘allergici’, concettualmente, al magma travolgente ed allora travolto dell’Informale che occupava ‘matericamente’ il decennio in via di conclusione. Tra i protagonisti di questa ‘stagione’ tutt’altro che letteraria, Dadamaino riveste un ruolo particolare che si isola e contemporaneamente compenetra la compagine, i gruppi e le unioni d’artisti e movimenti. La costanza coerente, insieme al ‘tema della variazione’ del suo lavoro ultraquarantennale si segnala negli anni e giunge all’oggi; attuale, originale, presente. Come l’installazione pensata in quest’occasione al Museo Virgiliano. In preparazione di questo particolare evento, concepito come un ‘messaggio’ alle nuove generazioni, hanno avuto corso alcuni incontri tra l’artista e chi scrive. I dialoghi registrati o riassunti vogliono essere spunto di riflessione sul lavoro di Dadamaino. Insieme all’autrice si sono ritrovati, letti e commentati, scritti, saggi, riviste, vecchie interviste, testi critici e documenti. Alcuni stralci di quei documenti e di quelle pubblicazioni sono stati riportati nel testo e citati come spunti per la discussione e citazioni su cui creare degli spunti per questo ‘viatico’ parlato… Rileggendosi, rileggendo e citando altre voci, l’artista ha tracciato, raccontato e costruito una cartografia del proprio lavoro, delle intenzionalità, dei desideri, perlustrando per il pubblico, il territorio vivo del suo percorso. Le letture sono state talvolta inserite nell’intervista come spunto o elemento critico di confronto, stimolo, talvolta provocazione. La trascrizione, rivista dall’artista, risente dei modi dell’intervistatore e delle frasi che spesso si sono fuse, incastrate, confuse nel momento del dialogo divenuto racconto a quattro mani e più voci. Di questa vitalità si è voluto rendere anche nella trascrizione. Non si è voluto interrompere un certo flusso delle parole…
Il percorso della vita – che occupa ampiamente la prima parte – più che mera autobiografia ha preso forma invece a causa di un ricordo di chi scrive.
Nel primo incontro con Dadamaino all’Accademia di Perugia, nel 1962, l’artista aveva illuminato il viso degli studenti parlando con chiarezza, semplicità, modestia, dei suoi esordi, dell’essere un giovane artista, degli ‘inizi’, sfatando luoghi comuni della critica e dell’attuale tendenza al costruire una ‘mitomania’, un ‘personaggio’ già dai primi passi, dagli esordi. Non potei che provarne stima, ammirandone l’umanità, oltre i lavori. Da quel punto, si ha l’inizio.
Milano, 2002-03

L.M.B.: Dadamaino ed i suoi esordi. O meglio Dada Maino inizia a dipingere. L’arte, la vita a Milano. Ricordo il tuo incontro con gli studenti a Perugia e le loro facce quando con estrema modestia descrivesti i tuoi incontri, le frequentazioni con quelli che adesso loro vedono come miti, personaggi maledetti, eroi… tu parlasti invece di modestia e preoccupazione. Dadamaino: Sai, ogni tanto è un piacere enorme incontrare i giovani soprattutto ora che è sempre più confuso il limite tra vita ed arte, tra successo e compromesso, tra mercato e vendersi, perdersi. Penso d’aver ancora una volta parlato dei miei inizi degli anni in cui incominciavo a sentire la curiosità trasformarsi in bisogno di dipingere, fare arte. LM: Ma la tua famiglia e gli studi di medicina? DM: Il dipingere si era affacciato alle mie necessità. Facevo su tele piccole alcuni fiori, nature morte, nulla che non potesse essere che classico, eppure mi sforzavo di dipingere. Mi sembrava una bella follia, tutto era assolutamente folle in quel periodo se volevi fare l’artista. Non c’era una possibilità per avere una formazione al di là dell’Accademia e comunque già l’Accademia era un poco arretrata forse, non so. Sta di fatto che io ero giovane e guardavo al mondo dell’arte come ad un luogo sconosciuto ma che sapevo esistere. I giornali, ti parlo del “Corriere della Sera”, ma anche altri scrivevano solo delle cose classiche dei vecchi maestri ed insultavano letteralmente o per la maggior parte le avanguardie. Gli artisti moderni da Cézanne in giù ad esempio erano sbeffeggiati, dicevano che Cézanne era l’assassino dell’arte, scrivevano delle cose così… o non scrivevano affatto… che era anche peggio.
I miei … anche se volevo dipingere… ho fatto medicina, mi sono iscritta perché loro non pensavano possibile l’arte, non la vedevano assolutamente di buon occhio. LM: Una vicenda famigliare che ti conduce all’arte quasi in modo incosciente. DM: Tutt’altro, ne ero molto cosciente. Sono vicende della vita. Erano le forme e gli usi ad essere diversi da oggi. Quando avevo ventidue anni avvenne la morte di mia madre. Mio padre era un socialista ed un uomo con un buon senso del reale, un realista. Ma attento, come ho detto molte volte, non un socialista di quelli tremendi che abbiamo poi conosciuto in Italia negli anni Ottanta, non uno di quei socialisti che pensavano ad arricchirsi. Mio padre aveva per l’epoca molto chiara la situazione della donna. Pensava che solo con l’indipendenza economica avrei potuto essere libera. Doveva contare il portafogli, essere pratici guadagnare in modo da potersi mantenere da soli. In quel modo secondo lui qualsiasi cosa fosse successa, un matrimonio andato male, un qualsiasi incidente, avrei potuto essere indipendente quindi libera. Per mio padre non esisteva una professione d’arte, era astratta, non garantiva nulla. Di fatto però non era veramente contrario a che io volessi fare l’artista: mi ha detto che non mi avrebbe mantenuta, non mi avrebbe più dato una lira, anche se poi mi ha dato una mano, un aiuto. LM: Volevo che ricordassi, lo so ancora una volta, il percorso vita/lavoro alla fine degli anni Cinquanta. DM: Dici l’incontro con Manzoni e poi il lavoro di Fontana?
LM: Sì, proprio i tuoi primi dipinti e le prime mostre. DM: Ci sono due o tre momenti che convivono. Io dipingevo come ti ho detto già, mi piaceva la pittura e allora, agli inizi, prendevo i fiori che mia madre metteva nei vasi e li disegnavo, cercavo di
capire le proporzioni che io non avevo. Facevo il tavolo, il vaso e poi i fiori non ci stavano più, su in cima, era tutto attaccato, non si capiva niente, una cosa stranamente umiliante, avvilente. Poi da quegli episodi stranissimi sono passata ad altro, con il colore, studiando la linea. Sono prove che io considero i ‘peccati di gioventù’. Ma le cose importanti avvengono tra il 1956 ed il 1957. L’o detto molte volte ma non mi stancherò mai di ripeterlo o sottolinearlo, è stata come una nuova nascita. Incontro e conosco Piero Manzoni e in una vetrina di un negozio vedo un quadro meraviglioso. Due cose importanti, fondamentali. Un giorno da un tram (LM: Come la folgorazione avuta sia da Magritte che da Ernst o Tanguy, quando hanno visto un’opera di De Chirico; non trovi interessante questa magia fatale dell’opera esposta al ‘pubblico’ della strada e che ‘investe’ letteralmente con il suo valore la sua presenza inusuale, ma nel modo più casuale, lo spettatore???) DM: eh sì come vedi… dal tram vedo in una vetrina di un negozio mi sembra di elettrodomestici un’opera bellissima, strana. Era un lavoro di Lucio Fontana, un quadro fatto con i lustrini, i colori ed i buchi. Sono rimasta come incantata tutta la mattina, sono rimasta lì a guardarlo. Avevo capito, o almeno in modo superficiale, ma molto forte, mi aveva colpito. Non sapevo esistesse qualcosa di così pensato, un pensiero. Ho lasciato perdere i fiori della mamma ed ho incominciato ad elaborare qualcosa di diverso. Certo mi ci sono voluti anni ma era iniziato tutto lì. LM: E l’incontro allora con le persone? DM: Quello avviene grazie anche all’amicizia con Manzoni. Milano era una città con una vita particolare, soprattutto per noi giovani che seguivamo un mondo parallelo, nuovo. Tutto sembrava migliore, c’era una energia incredibile, pensavamo veramente che si potesse cambiare tutto. C’erano le gallerie in città. Manzoni mi ha presentato
gli amici artisti, si visitavano le mostre ci si informava e discuteva a lungo. Pensa, abbiamo potuto vedere delle cose all’epoca ancora inimmaginabili. Pollock con il suo modo di far pittura. Poi Manzoni stava facendo quei lavori di materia ed un poco nucleari, e poi i nuovi lavori, nuove sperimentazioni, si lavorava in studio, ci si confrontava. L’incontro tra gli altri che ricordo, sempre grazie a Manzoni, è stato quello con Fontana. Era generoso e disponibile con noi giovani, se poteva aiutava, seguiva, discuteva. Un rapporto per tutti noi molto importante. Come ti dicevo i giornali non scrivevano che poco o male di arte d’avanguardia e tra di noi allora ci si informava, si parlava dei nuovi gruppi stranieri, si formava come una compagnia, un gruppo di individui che dividevano interessi ed informazioni. LM: Milano era anche un crocevia particolare per certe avanguardie di quegli anni vitali tra la fine Cinquanta e il 1960-61. Stava, tra le altre cose, sostituendo quel mondo informale/materico che all’epoca rappresentava in fondo l’ufficiale avanguardia. Penso a quell’atmosfera tutta giovane ed energica anche se ovviamente non così popolare della presenza di Fontana appunto ma anche del Nouveau Réalisme presentato da lì a poco proprio a Milano, al Pollock e gli altri artisti al Naviglio, Carlo Cardazzo appunto, e le mostre di Klein poi il Gruppo Zero ed i giovani che in qualche modo avevano già intrapreso un loro percorso come Bonalumi, Castellani, Manzoni o personaggi che si delineeranno come Alviani, Colombo, Scheggi, una città viva di fermenti e speranze sembrerebbe. Alcuni giovani, oggi, la vedono e leggono
quasi come una situazione ‘mitica’. DM: Oggi si fa presto a dire mitico o idealizzare quel periodo come fanno anche certi giovani o critici. Non era assolutamente facile. Nessuno pensava neanche di poter vendere, era molto se si partecipava a qualche mostra, per la maggior parte concorsi o premi per giovani. Io ho incominciato così, ma era difficile. Collezionisti poi erano pochissimi, e tutto sembrava comunque bello perché noi si lavorava per il piacere di sperimentare non per piacere o compiacere. Per noi bisognava cambiare il Sistema, invertire la tendenza di quello che c’era allora. Eravamo stanchi dei materiali pesanti della tradizione. Non ne potevamo più del bronzo, della pittura pesante ad olio, della materia sprecata sulle tele per metri e metri. Volevamo anche intendere una nuova condizione dell’uomo/artista. Non volevamo più identificarci con quello che la gente o i giornali pensavano o indicavano che fosse l’artista, un essere strano tra il pagliaccio, il buffone o se avevi molto successo il personaggio, tipo Picasso, cui era concesso l’onore d’essere protagonista; ma sempre criticabile, diverso. Non si pensa adesso al fatto che i lavori di Fontana erano capiti da pochi illuminati e gli articoli dei giornali conservatori erano sempre riduttivi, lo prendevano in giro, lo offendevano, offendevano il suo lavoro e l’attendibilità di quelli che ammiravano i suoi buchi, i tagli. Pensa ad esempio alla tanto mitizzata merda in scatola di Manzoni. Quando la fece tutti si scandalizzarono dicendo cose incredibili parlando d’offesa senza capirne l’importanza, il gesto, l’idea. Ecco cosa c’interessava, lo sposare l’idea all’opera, così Manzoni aveva detto una verità, innegabile, messa in bell’evidenza, conservata. Non è come adesso che i giovani artisti calcolano la provocazione per vedere che effetto fa sui mezzi di comunicazione, così possono dire di essere diventati famosi. Noi si lavorava insieme ed appartati in fondo, c’interessava conoscere altri giovani che pensavano e lavoravano come noi in altre realtà. Insomma capire che era possibile ricominciare da zero, cominciare dalla ‘tabula rasa’ che è quello che ho fatto con i Volumi. LM: Questa situazione comune a molti di voi è importante, questo concetto voluto, desiderato, d’azzeramento, di tabula rasa vi collegava a tutta una situazione internazionale, alcuni di questi protagonisti vi erano noti, di altri forse giungevano notizie. Penso che sia stato uno dei momenti più vivi della sperimentazione in Europa ed altrove, una posizione che andava contro anche a quelle figure che avevano ottenuto un certo successo immediatamente dopo la seconda guerra mondiale tramite i movimenti della fine degli anni Quaranta e l’Informale del decennio successivo. La vostra posizione investe molto sul concetto di spazio puro ottenuto tramite la Monocromia. II Monocromo è sempre stato per me uno degli spazi più alti della riflessione artistica, ne sono affascinato quasi fosse un Luogo del pensiero, uno spazio-oggetto ideale, molto puro eppure fortissimo, concreto. Nella tua monografia per Bochum, Tedeschi inquadra bene la temperie di un certo ambiente quando scrive di artisti che: “in quello stesso periodo, fra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, elaborano forme di riflessione critica sull’oggetto-quadro, dalle diverse soluzioni di monocromia, raccolte nella storica mostra “Monochrome Malerei” a Düsseldorf nel 1960, alle altre operazioni di azzeramento del valore sensibile della pittura o di
riflessioni attorno al suo significato. Dall’intento metafisico del blu di Klein, alla cancellazione operata da Manzoni con i suoi Achromes o, in modo diverso, da Jasper Johns con i suoi colori ad encausto, o dal ‘grado zero’ delle tele bianche di Rauschenberg, alle diverse realizzazioni degli autori del Gruppo Zero tedesco e del gruppo Nul olandese. . .” Come era letta da voi questa situazione mentre eseguivi i tuoi Volumi, tagliavi e rimuovevi la tela creando appunto volumi vuoti? DM: Ci tengo molto a ricordare la situazione italiana dell’epoca. Era diverso, difficile eppure noi eravamo entusiasti. Pensa ad una situazione anche di mercato, ma di mostre, di contatti ufficiali eccetera che vedeva artisti come Guttuso. Guttuso, possiamo dire, era l’artista ufficiale della nuova borghesia, per noi un punto di potere da sorpassare nel modo soprattutto d’intendere l’arte… a noi non interessavano quelle cose lì… quella posizione, quei collezionisti che consideravano la ‘firma’ da appendere al muro dei loro salotti. Poi sai, le informazioni ci arrivavano dall’estero e noi non mancavamo di vedere una mostra, erano incontri formidabili, molto importanti… ci si divideva, si discuteva, si formavano gruppi di discussioni contro idee reazionarie… tutto quello che nasce dalla forza dei giovani dal loro credere nelle possibilità del pensiero, del fare arte… importante… decisivo per me… Dico sempre che gli stranieri erano, in qualche modo, avvantaggiati, si erano formati su altre esperienze, pensa agli olandesi alle loro avanguardie che erano sempre cresciute con loro e non interrotte dal Novecento. Loro partivano da Mondrian, dal De Stijl, noi avevamo avuto Sironi, il figurativo, perfino Rosai quella roba lì… avevamo forse risentito della matrice cattolica… noi invece volevamo dare la visione del mondo come pensavamo fosse, come desideravamo fosse anche concettualmente, spiritualmente, per questo avevamo bisogno di azzerare, annullare. Prima per noi c’era Fontana ma era comunque ammirato da pochi… pensa alla situazione come una situazione dove dominava il ‘socialismo realista’ di carattere nazionalpopolare o altrimenti un informale che alla fine degli anni Cinquanta, era già stanco, troppo pieno insomma, come dicevi tu ‘di maniera’. Io ho iniziato a fare i Volumi grazie a Fontana, se non ci fosse stato lui, prima, non avrei osato iniziare quel percorso, è stato fondamentale proprio come pensiero.
Quale gesto di ribellione a livello inconscio ritagliai nelle tele grandi spazi, dove il vuoto era di gran lunga preponderante. In effetti non facevo che una distruzione simbolica onde potere cominciare da capo. Vedi io non partivo necessariamente dalla situazione del Monocromo così come ne parli tu, ma sicuramente quello era lo spazio/colore su cui ed in cui volevamo muoverci… poi all’estero era già un movimento ed è stato importante anche quando si sono organizzati qui in Italia e ci siamo confrontati con mostre in Europa nelle gallerie e nei musei, da subito, è stato importante. LM: Anche il Gruppo di Azimut e ancor singolarmente Manzoni, Castellani, Bonalumi quindi diventano un centro quasi rivoluzionario con cui orbitare… DM: Sì vedi io volevo sperimentare così i Volumi, per me il togliere era un gesto (ero giovane avevo vent’anni) incosciente, ma lo ho fatto a quelle date, allora aveva in sé, portava in sé un senso; loro stavano già lavorando in quella direzione/concetto. LM: Gesto e senso universale fontaniani tradotti dalla nuova generazione, con leggerezza inconsapevole ma forte presa di posizione comunque… come nascevano i Volumi? Io ricordo d’averne esposto uno alla mostra Materia-Niente a Venezia in cui si vedevano i tracciati, i segni della preparazione, leggero, intenso ma con un senso quasi casuale di impalpabilità. DM: Sono quei Volumi che io non dipingevo o dipingevo appena, come una base di preparazione della tela, così da quelli puoi leggere il percorso, come li facevo… Era importante rendere resistente la tela e quindi io la passavo con acqua e vinavil, sottile, a pennellate fitte più volte… segnavo la tela in modo molto libero a matita, quasi un fare casuale, ma formavo un ‘corpo’, poi la tagliavo seguendo quel segno, una volta terminato lo coloravo. Sono quasi tutti neri, ogni tanto ne facevo con il bianco e quella che tu dici è una di quelle rimaste senza colore, non colorate, come grezze, ma leggermente più precisa, un’evoluzione dei Volumi. LM: Infatti tra la fine del `58 e l’anno successivo nei Volumi il vuoto che prima era un unico spazio che talvolta faceva anche intravedere il telaio, diventa multiplo, prima in coppie di vuoti poi dal `59 circa tracci dei fori veri e propri, leggermente più precisi, disposti in file che via via divengono ritmo, sequenza, forse una ‘prospettiva di Spazio’… DM: Erano lavori, come tutti i miei lavori ‘in divenire’, sono nati come conseguenza, necessità… se ci si ferma,
se si pensa di aver raggiunto un punto allora si è perduti, così sono nati i lavori di cui parli e dopo o quasi insieme i Volumi a moduli sfasati. Mi interessava anche il movimento, nei volumi dove ritagliavo quasi tutto si vedeva dietro il muro, si vedevano le ombre, con la luce sembrava che tutto si muovesse… Fontana ci aveva insegnato che bisognava dare, creare una nuova via all’arte in cui entrassero mezzi nuovi, anche tecnici, scientifici. E poi stavo riscoprendo i futuristi i loro insegnamenti ‘dinamici’… Sulla scienza, sulla percezione si potevano fare nuovi passi. Agli squarci feci seguire un ritmo più serrato ai fori, un ordine e misi un fondo così che le luci e le ombre potessero ‘proiettare’ la loro presenza mutando l’opera… I fori diventavano poi sempre più piccoli, serrati, e numerosi… sono poi allora passata ai Moduli sfasati, grazie ad un altro materiale dalla tela. LM: Che hai presentato in Germania e al Gruppo N a Padova agli inizi degli anni Sessanta… Volevo tentarti ancora con un ricordo/incontro tra pittura e storia… a Perugia in occasione dell’incontro con gli studenti parlasti di Mondrian… e di Malevic… DM:… Ah si!!! Ancora una volta… sai mi piace concepire l’artista che fa una cosa e la fa non perché è matto o stupido, ma perché ha un senso, esiste un pensiero e questo pensiero deve esistere anche quando si guarda un altro artista importante… non mi interessa che la gente o i giovani vadano soltanto in un museo… guarda le mostre adesso con la ressa di gente che sembra guardare gli impressionisti come la televisione… sono lì in gita, potrebbero essere da un’altra parte che se ne fregherebbero… vorrei che le cose si guardassero ‘essendoci’, cercando di penetrare quel ‘senso’ che ha voluto dare, rappresentare l’artista in quel lavoro,
nella cosa che ha fatto. Così ho visto gli artisti di cui tu parli… LM: Avevi parlato dei tuoi incontri dei tuoi ‘Pensieri’ con Piero della Francesca, Monet e l’astrazione poi… DM: Ho visto Malevic ‘dal vero’ per la prima volta in Germania, sarà stato il ’61 -’62, frequentavamo molto il mondo dell’arte tedesca…; si facevano molte mostre di artisti italiani, anche di Fontana e del Gruppo Zero, si era creata quella che definisci una ‘situazione’ ed ero andata a Colonia ed in altre città… lì ho visto anche le opere di Mondrian… é stata una vera folgorazione… come ti ho detto…; non mi piaceva per niente quando lo avevo visto sui libri, riprodotto, era piatto, decorativo, senza vita e poi… ho visto la sua pittura. Una materia, una pittura, non si interessava affatto alle ‘righe dritte’ o alla mania della perfezione era un vero pittore; per me entrambi sono stati un colpo, un altro segno forte come un tuono… Grandi artisti… importante vederli dal vero, come tutta l’arte d’altronde… è necessario sentirla vederla vera, ‘dal vivo’, le riproduzioni, anche le migliori ingannano danno solo una parte del lavoro… la sua riproduzione e allora non basta. Piero poi per me è stata un’altra folgorazione… soprattutto la Resurrezione… è l’artista che amo, il più misterioso… è stato un incontro emozionante, troppo… Trasmette con il lavoro una gamma incredibile di sensazioni…; al di là di quello che rappresenta… e lo stesso, devo dire del Monet delle Ninfee… ha un senso dello spazio, della rappresentazione che supera certi limiti per diventare quasi ‘immenso’ non so…
LM: E questo senso della mobilità dell’immenso volevi esistesse anche nei Moduli sfasati? DM: No! era una cosa forse più semplice ed ideale se vuoi allo stesso tempo… sai il principio che niente è stabile ed è tutto in divenire in evoluzione sensibile… nulla è eterno; volevo che i lavori mutassero… e come ti
dicevo sono partita dai materiali e dall’idea… dovevo unire questi due punti… LM: Così la plastica. DM: Dovevo e volevo liberarmi dalla Materia, non sopportavo il suo peso, per me era un peso, un aggancio con la tradizione e volevo variazione, mobilità, vibrazioni…
Ma soprattutto volevo trasparenza e l’ho trovata in un materiale industriale che per molti era d’uso domestico… avevo fatto un reticolo fitto di fori ed avevo bisogno di trasparenza… ho utilizzato il materiale plastico con cui si costruivano i teli per le docce insomma un materiale tutt’altro che nobile ma utilissimo al mio scopo e alla mia idea… da lì partono molti punti del mio sentire e fare un lavoro… mi interessava lo sfasamento della tramatura, l’alternarsi del ritmo… Con una fustella foravo a mano tre o quattro fogli di quel materiale plastico montati a telaio… che poi smontavo e li univo su altrettanti telai che univo in un unico lavoro alla fine… la plastica si dilatava e causava degli spostamenti lievi dei fori… puoi immaginare comunque il battere con il martello a mano la fustella, c’era manualità irregolare che serviva anche a sfasare in modo irregolare appena la tramatura, perciò creavo una serie trasparente di immagini sovrapposte ma leggermente alterate in prospettiva/spazio, sfasate. Ottenevo un risultato. Ho sempre ricercato non ho mai arrestato la ricerca… sempre… e da quell’intuizione da quella profondità e del ritmo dei moduli sfasati sono passata ad altro…
LM: Passa o matura a Milano ed in Europa anche una nuova temperie, un modo di gruppo di concepire l’opera. La manualità, la casuale leggerezza e trasparenza dei Moduli sfasati traghetta altrove quasi naturalmente quando esegui i Rilievi modulari a scaglie e gli Oggetti ottico-dinamici… in questo frutto penso anche ad ampie discussioni con amici artisti ed Umberto Eco o Dorfles?
DM: Sai ho avuto rapporti di amicizia con molti teorici, scrittori e critici, il loro apporto era necessario, soprattutto alcuni che andavano cambiando il modo di essere critici e partecipavano alle nostre discussioni o al tuo lavoro… con molti ho avuto contrasti. La cultura è fondamentale per tutti; per questo rispetto che hanno per la cultura in Germania si sono sviluppati più musei del contemporaneo, c’era e c’è uno spazio vero per la ricerca proprio per il peso, non so che si da alla cultura. Hanno elaborato nuovi linguaggi, di filosofia, discusso di scienza anche nel mondo dell’arte… Ma il mio non è stato un passaggio ma uno sviluppo… non è una stagione che mi interessa più… non è che la rinneghi perché è stata un’esperienza importante ma oggi la vedo come in distanza che si è veramente conclusa allora. LM: Eppure ti ha vista
protagonista di molte mostre all’estero ed in Italia… dove partecipavi in ambito Cinetico-programmatico… È stato pubblicato questo tuo scritto a proposito degli Oggetti ottico-dinamici dove descrivevi le forme di alluminio sospese alluminio ridotte a scacchiere variabili tra lucentezza e colore… opere come: “Formazione di quadrilateri in rilievo progressivo sostenuti da fili di nylon. Tali quadrilateri sono formati da lamelle di alluminio fresato alternati a vuoti assorbiti dal fondo nero e formano aspetti dinamico circolari. Inoltre, a seconda della disposizione della fresatura e dei movimenti del fruitore, si verifica una successione di forme geometriche (rombi, triangoli, diagonali,etc.). Partendo da queste scoperte la ricerca ottenne effetti tali da creare movimento nella forma statica”. DM: Avevo iniziato a fare dei lavori in carta, a scaglie, che creavano uno scarto, un effetto evidente di moduli, di ombre, vibrazioni ma la materia, la carta era delicata, forse ancora troppo viva… poi gli Oggetti ottico-dinamici per il loro effetto con la visione programmata, con la percezione e lo spettatore mi sembravano interessanti così come gli altri lavori…; mi interessava il senso anche di gruppo e di lavoro al limite del collettivo-anonimo, forse quell’aspetto era già politico, una politica forte in arrivo, una risposta a certe resistenze, nuove proposte finalmente che sembravano apparire… non c’erano più certe prese di posizioni impossibili ed intolleranti tipo nazional-popolare, ma bisognava creare qualcosa di nuovo che testimoniasse un nuovo momento anche politico. Queste ricerche allora, come ti ho detto mi sembravano interessanti e comunque in evoluzione per il mio lavoro… Ho anche progettato e fatto un film (Ricerca N°1 nel 1965) e anche con i compagni dei Gruppi o il
Gruppo N si esponeva, si mostravano questi oggetti… poi sono entrata, sono stata assorbita dalla politica militante dal fare politica che mi sembrava vitale, ancora una volta necessario, come artista e come individuo nella società… Con certe opere mi mettevo in discussione come artista… era come una scoperta. Anche se poi, fare un quadrato che era composto da tanti quadrati che poi erano cerchi è stata come una scoperta ed una sfida ma ti ripeto un’avventura, un’esperienza che è rimasta pura ma scientista… LM: Tu hai ricordato che non eri in accordo con l’arte cinetica e l’introduzione di motori, rotori o ingranaggi. DM: No non ero d’accordo con l’arte cinetica vera e propria, con la necessità di mettere un motore, dare una ‘spinta’ all’opera… perché dico sempre che l’opera d’arte deve volare con le sue ali o niente potrà mai spostarla darle più vita o moto… in tutto questo poi aggiungi che non ho mai o quasi mai lavorato con il colore con i colori nella loro gamma… ma questo è un altro discorso e fa riferimento ad un unico lavoro in particolare… però mi interessava il concetto della fine dell’artista ‘unico’ che produceva opere uniche… LM: Hai scritto anche del tuo interesse per l’opera “non definita, dell’instabilità dell’opera, dell’opera programmata in fondo della spersonalizzazione rispetta alla realizzazione”. DM: Erano parole riferite più ad una situazione di Gruppo, ma l’instabilità dell’opera mi piaceva, mi interessava, ma con il tempo e attraverso le opere, i risultati ho avuto un momento di assoluto bisogno di fare autocritica, di osservarmi, capire cosa stava succedendo. Per me è stata molto importante l’evoluzione e l’esperienza del colore… Ho sempre poco usato il colore come ti dicevo, e l’ho utilizzato anche perché certi lavori mi sembravano essere diventati un poco seriali, ma anche come potrei dirti degli studi corretti, ben fatti ma decorativi. LM: Una volta li hai definiti ‘floreali’. DM: Sì come ti ho detto prima mi sembrava che si fossero come spenti, appassiti e volevo andare avanti, in evoluzione… LM: E così nel 1966-67 hai affrontato il colore con i Componibili e soprattutto con La ricerca del colore… Una serie ed un lavoro completo… DM: Allora si usava già in alcuni istituti di ricerca di medicina sui tumori… così vedi che la medicina, la scienza ritorna… così io l’ho usato per fare quello studio sul colore composto da cento tavolette… Avevamo fatto una sorta di scelta cromatica, una schermatura come le note musicali che sono tantissime ma diventano sette… abbiamo selezionato ed abbiamo scelto quaranta varianti di colore per realizzare le tavolette che misuravano esattamente venti centimetri per venti. Ho usato i colori dello spettro, sette: rosso, arancio, giallo, verde, giallo, celeste, blu, viola ricercando il valore cromatico medio tra loro più il bianco, il nero o il blu… Un’esperienza importante ma poi ho cessato di usare quasi tutti quei colori… si sono fermati in quel lavoro che per me è uno studio importante… dal 1968 per tre anni e con impegno, mi sono invece dedicata al lavoro politico a tempo pieno…. una meditazione attiva, una scelta di cui sentivo ancora una volta il bisogno e la vitalità… Ho ripreso negli anni settanta con alcune Superfici-Volumi o Cromorilievi che riprendevano il discorso prima sospeso… poi questi lavori sono diventati un poco più plastici… e ho continuato a lavorare, lavorare su quei corpi, sui volumi… LM: Ed ancora successivamente una nuova tabula rasa, un inizio con i lavori Inconscio razionale di cui hai scritto per presentare un tuo catalogo. DM: Sai… arrivavo da un momento di grande discussione anche nell’ambiente politico, prima da ragazza dovevi sempre essere perfetta, anche come donna (non mi ero però mai interessata al fatto delle donne e l’arte non pensarlo come una posizione, per me un artista è un artista) ma perché era difficile fare l’artista come donna eri sempre sotto l’occhio, il controllo di qualcuno… Io sono quello che sono e il mio lavoro è quello che faccio, sono io, quello che so fare… non ho bisogno di qualcuno che mi giudica come donna e che allora deve dirmi se sono brava o no… ero arrivata al punto in cui mi sentivo come costretta, avevo bisogno ancora una volta di azzerare e allora ho abbandonato tutto… ho tracciato delle linee a mano libera, su di un foglio, come un pensiero e il mio lavoro è cambiato completamente si è liberato, diventato complesso… vivo di nuovo…; sono così nati i nuovi lavori. LM: Vorrei qui di seguito trascrivere una tua comunicazione che trovo importante proprio per chiarire questo passaggio negli anni Settanta che ti ha portato dalle Superfici-Volumi all’Inconscio razionale ed all’Alfabeto della mente di conseguenza: “Ho continuato a lavorare con più accanimento fino a scarnificare la ricerca a sole linee, perché intravedevo che quello che cercavo era anche una specie di profondità chè non doveva evidenziarsi con la prospettiva, ma con un risultato piano. Poi stufa di continuare a prendere misure e fare linee di lunghezza o di larghezza, o spessore controllati ho guardato il tiralinee che in definitiva è sempre stato la mia penna ed ho scritto, sulla carta prima e sulla tela poi. Si tratta di una scrittura della mente, della mia; fatta di linee ora dense e marcate ora impercettibili e saltellanti, ora lunghe ed ora brevissime, senza alcuna programmazione a priori… Ma è chiaro che se la mano è guidata dalla mente, in questo caso lo è dall’inconscio. Il risultato è una serie di reticoli e di spazi vuoti, per nulla disordinati, che hanno un loro ritmo, una loro profondità ed una loro armonia…” DM: I lavori di Inconscio razionale sono stati esposti a metà anni Settanta… avevo veramente scarnificato molte situazioni… il lavoro era ancora una presenza che rifletteva ciò da cui provenivo, dalle esperienze in arte ma anche dal periodo della politica… il rapporto con i compagni operai, con il lavoro, cercare di unire entrambi, abbiamo imparato molto, tra umiltà e militanza… era stato un periodo forte, intenso… è per questo che ho tolto, tolto, non voglio dire semplificato, ho cercato… per me il lavoro doveva raggiungere una nuova profondità, assumere anche un peso… ma entrambe queste caratteristiche non dovevano identificarsi con prospettiva e materiali… Ho iniziato arrivando in profondità con il segno ma era importantissimo il rapporto di cui hai letto tra ciò che la mano tracciava e l’inconscio, la mente. LM: Ed è già da questo preciso momento che la critica parla per il lavoro di ‘scrittura’… ed essenzialmente si identifica con la tua affermazione, quella della ‘Scrittura della mente’… Una scrittura che si avvale di uno spazio positivo ed uno negativo quando le tele bianche sono solcate da segni neri e viceversa… Tommaso Trini scriveva che Dadamaino oggi (1976) “scrive” una “individuazione intema, profonda, personalizzata”. DM: Vedi… in questi lavori… per me è stato essenziale il senso di vuoto, di una presenza che l’inconscio lasciava e la mia mano andava tracciando… non so… non era ancora necessariamente scrittura se non nel fatto segnico, nel lasciare tracce con un ordine preciso e casuale al tempo stesso… ma come hai letto prima, erano dei ‘reticoli’ ordinati… talvolta pieni, intensi, altre volte appena percepibili… dovevo raccontare, dare spazio ad un senso di vacuo… con l’arte programmata provenivo ed ero immersa in un mondo in cui se tutto non era perfetto non dava il significato del movimento ed il lavoro letteralmente, fisicamente, non funzionava… Ho iniziato a lavorare con il corpo… la mano tracciava segni con un loro ritmo… saltellante ma ordinato… ritmato… avevo iniziato ad immergermi nella ricerca del tempo… per questo scrivevano di scrittura personale e intima… II tempo è la cosa più semplice della vita e in verità l’unica cosa che veramente si possiede, il tempo è di ognuno di noi… per questo elemento in questi lavori c’è una sorta di chiusura dell’esperienza precedente dei lavori di prima e dei primi anni Settanta e l’apertura al segno a quella che ho chiamato la Scrittura della mente… LM: Ordinando questa mostra per il Museo Virgiliano hai voluto proporre due momenti del tuo lavoro e comunicare in modo preciso soprattutto ai giovani ed ai visitatori un momento, uno spazio dell’attualità ed un’emergenza che c’è sempre come un (perdonami il paradosso) ‘quieto senso di allarme’… Così con te, nel tuo studio, Aldo Grazzi del Museo ed io, ci siamo trovati a ragionare, a provare, far emergere dall’archivio e dai preziosi raccoglitori sia L’alfabeto della mente sia alcune lettere da I fatti della vita… poi per gli spazi della sala abbiamo trascorso i Movimenti delle cose… Questa mostra che è un pensiero di Dadamaino per il pubblico è composta esclusivamente da queste tre tipologie di lavoro, di queste scritture, di un grande muro dove sono appese le Lettere in una composizione, una dedica che si avvicina quasi al monito… al di là di ogni estetica piacevole… Questi lavori hanno tutti origine da un fatto della tua vita, ancora un segno biografico che ‘incide’ ed è rimasto inciso nella tua opera… e… anche se si è trattato di un fatto episodico come un forte aneddoto è anche vero che ha generato un lavoro ed un pensiero duraturo che accompagna la tua opera e diviene innegabilmente parte del suo messaggio…
DM: Come ho già detto tante volte… L’alfabeto della mente nasce da un episodio che è stato sicuramente una spinta emotiva, una partecipazione ad un fatto terribile della storia, della mia storia cioè del mio tempo e dell’umanità, qualcosa a cui non potevo porre rimedio ne evitarne l’accadimento… Volevo protestare ed anche urlare la mia disperazione… sì un fatto emotivo che mi ha fatto scrivere la Lettera a Tall el Zaatar… LM: Hai raccontato dell’episodio come di un coinvolgimento intimo che poi si è dispiegato in un documento ‘intimo’ e poi diventato opere… Come nel testo che cito in apertura di questa parte… una protesta scritta sulla sabbia… ancora una volta il senso di cambiamento, fato, un testo forte e labile al tempo stesso per contenere la tua rabbia… DM: Sai di quel drammatico episodio la cosa più impensabile era la premeditazione e I’impotenza che questa generava… era il 1976 e in un villaggio erano stati raccolti migliaia di palestinesi… tutti sapevano che sarebbe avvenuto un massacro… tutto il mondo lo sapeva ne era a conoscenza… Nessuno voleva o poteva far niente… Io credevo ancora all’Uomo, al suo destino possibile, alla sua bontà… pensavo, speravo che si sarebbe intervenuti, che qualcuno reagisse a questo disastro umiliante, doloroso. Ho scritto una lettera, ho tracciato su fogli dei segni in modo ossessivo facendo linee, tracciando questa lettera come un’invocazione sui fogli, piena di dolore, impotenza… Avrei voluto in questa lettera, in questi fogli che tutte le donne si fermassero un giorno, scioperassero per fermare questo terrore, questa strage… Feci altri fogli, altre lettere sempre ossessive che volevano esprime la mia solidarietà… alcune per pudore, orrore, dolore le ho coperte con un foglio perché il dolore esige sempre pudore… LM: Ma la sorte si compì tragicamente in un giorno di agosto… DM: Sono morte tremila persone… il genere umano… Omicidio…! Sono andata sulla spiaggia… in Calabria e con un bastone veramente per scaricare tutta la mia rabbia ho fatto segni tutto il giorno sulla sabbia ero in collera e dovevo fare qualcosa, qualcosa che mi sfogasse e che al momento non voleva avere un senso… Poi il giorno dopo… sono tornata su quella spiaggia ed erano rimasti dei segni, non erano stati del tutto cancellati, la sabbia tratteneva quei segni… erano sembravano delle H … Una lettera muta nella nostra lingua… per questo avevo parlato di una protesta labile perché scritta sulla sabbia e che mi dava una lettera muta… LM: Nasce in questo modo drammatico un lavoro che molti hanno valutato e visto come un percorso segnico minimale e ‘leggero’ e che invece nasconde un metodo sospeso tra l’inconscio e la comunicazione, lo scrivere a sé ed al mondo… a chi guarda; un alfabeto privo di suoni ma ricco di segni di possibili, esatte o casuali combinazioni… sospeso, leggero, lieve ed anche minaccioso… non sono ideogrammi, sono segni vitali, sempre legati alla percezione non chiedono una lettura o di essere decifrati…; esistono nello spazio del foglio e creano un movimento sensibile tra riga e riga e anche in un chiaro rapporto tra foglio e foglio… DM: Non c’è minaccia se non il raccontare, lo scrivere in un alfabeto che non ha fonemi… forse inquieto… dalle sedici lettere che ho elaborato e che compongono questo alfabeto sono nati poi I fatti della vita… è questo scorrere del destino dell’uomo… Così a Virgilio per questa mostra i fogli faranno un percorso sui muri… ho voluto scrivere queste altre lettere riunendo diversi lavori… come creare un messaggio…; sai in tempi reazionari come questi bisogna tornare a parlare, ad esporsi, a far pensare… Per questo il lavoro che esponiamo al Museo Virgiliano mi piacerebbe dedicarlo al popolo della Palestina, scrivere un’altra lettera… dedicarglielo e far capire al pubblico il dramma i Fatti… e poi Virgilio, la scrittura… non voglio neanche pensare alla grandezza di uno scrittore… a ciò che in qualche modo ci ha tramandato… quello che la scrittura, la sua, ha lasciato… sono molto contenta di presentare un lavoro di ‘scrittura’… per una parte che diventa quasi un fregio con tanti fogli insieme e nello spazio della sala volevi mettere i Il movimento delle cose… LM: Il movimento delle cose cambia ancora il tuo lavoro pur rappresentandone una variazione un’evoluzione… DM: È ancora partito con il lavoro, la mano, il materiale; ancora una volta… l’alfabeto, gli altri lavori li facevo come prigioniera in una cella lo spazio di un carcerato… sai che I fatti della vita sono composti da 560 fogli… sono quel numero perché arrivata ad un certo punto il lavoro si era esaurito… è un lavoro complesso con un suo spessore, un suo ritmo e eterogeneo… ci sono lavori di tutte le dimensioni fatti su piccoli pezzi di tela o carte, grandi o piccoli… sono lavori appesi, accostati come per voler dire delle cose che non si possono o potevano dire… lavoravo su tutto quello che poi potevo appendere… Il movimento delle cose mi ha fatto guadagnare lo spazio, ho in qualche modo conquistato lo spazio, un attraversamento grazie anche al materiale… Questo mio desiderio che si rivolge al Vuoto… al mutamento… ho riempito lo spazio segno dopo segno, un unico segno ripetuto fino a riempire lo spazio… sui fogli,
sulle carte… e poi ho avuto come un grande desiderio…; volevo disegnare nell’aria… volevo disegnare nell’immateriale… Volevo anche opere che non avessero bisogno di un supporto… così in Germania ho trovato il poliestere… abbastanza pesante ché io potessi inciderlo, tracciarlo con un pennino ed un inchiostro particolare… È un percorso il più immateriale possibile… io lavoravo pezzo dopo pezzo, non riuscivo mai a vedere il lavoro completo se non alla fine… è questo senso continuo del lavoro come se fosse un discorso… un piccolo pezzo non vorrebbe dire niente… è un segno che si muove… come ci muoviamo noi è in divenire… il senso era di fare di poter fare tanto in ogni giorno… poi il segno naturalmente cambia, la mia mano, la pressione, la traccia del sudore, alle volte è più mosso, si muove… vivevo questo lavoro con emozione e sentivo che alle volte si rivelava più profondo, altre tremava come se la mia mano avesse dei tremiti… Il lavoro io lo vedo solo a pezzi ed è la misura del mio braccio mentre lo faccio, ed allora è il pensiero che conduce ed alle volte scorre, come scorre il lavoro… come va per la sua strada… quasi fosse un fiume… LM: È questo il senso del ‘Flusso’ del tuo lavoro sospeso in queste sale in questa occasione, il flusso del pensiero come se il tutto fosse sospeso in un’unica grande opera universale… DM: Sospendere questi lavori è permettere alla loro trasparenza di esistere di farsi attraversare da chi guarda… è in questo flusso come lo chiami tu che potrebbe esserci il senso di un lavoro che non ci accontenta mai perché gli artisti non sono mai contenti e vogliono sperare che il prossimo lavoro sia ancora più maturo, riuscito…; sono passata da una sorta di microcosmo delle lettere ad un macrocosmo… come se il lavoro il disegno fosse diventato sia tempo che spazio… È in questo… che risiede il mio infinito desiderio per l’Immateriale.

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