Il 21 settembre 1969 a Como nell’ambito della rassegna Campo Urbano a cura di Luciano Caramel, l’artista, invitata a pensare un intervento di arte pubblica realizza l’Illuminazione fosforescente automotoria sull’acqua, con piastrine di polistirolo 20 x 20 cm verniciate di colori fluorescenti, che alla sera vennero liberate sulla superficie del Lago di Como. L’intento ere di riportare l’attenzione del cittadino alla presenza del lago, con un effetto spiazzante e ipnotico. Ma il risultato fu che molti spettatori si appropriarono indebitamente delle piastre fluorescenti che arrivavano vicino alla riva, vanificando l’opera stessa.
L’insieme dei progetti di ambienti che Dadamaino concepisce nel 1969 e dettagliatamente prepara (con la collaborazione dell’architetto Carlo Jachino e Dario Zaffaroni per la parte elettronica) per un concorso di “evironnements luminocinétiques” destinati a Place du Châtelet a Parigi, indetto da Frank Popper per il Centre National d’art Contemporain, appare senza dubbio l’impegno maggiore: gli ambienti non verranno mai realizzati ma le tavole di progetto, meritevoli del secondo premio, saranno esposte alla mostra Intervention, environnements luminocinétiques dans les rues de Paris et la banlieue parisienne, organizzata da Popper al Centre National d’Art Contemporain di Parigi nel dicembre 1969. I due percorsi ideati dall’artista per Place du Châtelet , uno all’esterno e l’altro in un tunnel interno, erano composti rispettivamente da sette situazioni ambientali e tredici veri e propri ambienti pensati come tappe successive di un coinvolgimento sensoriale totale. Nel percorso esterno il pubblico passando su una pedana veniva invaso da una pioggia di bolle di sapone “ un effetto gradevole e invitante. Il ricordo primario sarà la dolcezza dell’infanzia”, commenta l’artista nel manoscritto inedito preparato per il concorso; in un secondo passaggio una sfera in plexiglas con getti d’acqua e luce stroboscopica doveva disorientare improvvisamente lo spettatore mostrandogli forme frammentate proiettate al suolo; in un terzo momento il pubblico stesso poteva a piacere colorare muri e marciapiedi con delle pistole a spruzzo (caricate di pittura a tempera delebile) messe a disposizione così “colorando una parte di marciapiedi, case e strada, si avrà un’altra visione dell’ambiente circostante”; un quarto passaggio riguardava il rispecchiamento dello spettatore, ripreso da telecamere a circuito chiuso: i protagonisti potevano vedersi nei monitor “come sono nella realtà e non come pensano d’essere”: si tratta di una “violenza leggera”, spiegava l’artista, in un percorso “in parte invitante e in parte repulsivo”; delle lenti deformanti in contenitori d’acqua potevano mostrare un paesaggio urbano deformato in forma e prospettiva, per scardinare le nozioni visive del pubblico; sempre per sorprendere lo spettatore nella coscienza che egli poteva avere della propria persona microfoni nascosti amplificavano a sua insaputa la voce diffondendola nella piazza; l’ultima tappa era quella che alludeva a una forma di potere, quella delle forze dell’ordine, evidente emanazione dl clima politico sessantottino: dei finti “Flics” chiedevano i documenti d’identità al pubblico e ne registravano a sua insaputa le reazioni. Gli ambienti interni al tunnel parevano un’emanazione più consona alla poetica dell’artista, soprattutto riguardo alla luce e al colore: l’ottavo ambiente era infatti un “bagno di luci colorate” accompagnate da musica; il nono, del tutto disorientante, presentava pedane mobili sul pavimento, nebbia e luci colorate; il decimo, invece, più provocatorio, era costituito da “una foresta di falli” gonfiabili, alti un metro o due , che spruzzavano un inchiostro liquido, per un effetto “falsamente erotico”; a questo seguiva un evironnement ad andamento ondulatorio, costituito da grandi cilindri rotanti al posto del pavimento; nel dodicesimo, la camera della porta ritrovata, l’ambiente nero avvolgeva lo spettatore, il quale, abbagliato da luce stroboscopica percepiva la presenza della porta di uscita ma non riusciva a raggiungerla; nel successivo un tapis roulant sul pavimento, verniciato al fluoro con disegni concentrici, in senso contrario al percorso impediva l’avanzamento; il quattordicesimo era una camera a luce di wood, dal pavimento basculante in cui lo spettatore era invaso da una marea di piccole palline di ovatta colorate; il quindicesimo era caratterizzato da un’apparizione fantasmatica mentre il successivo presentava un “environnement tubulaire”, ovvero una composizione prospettica di elementi al neon colorati, disposti in linee sequenziali, che potevano essere variati a piacere dallo spettatore con differenti pulsanti di accensione in modo da alterare in senso astratto la prospettiva; il diciassettesimo introduceva lo spettatore nelle “false prospettive” concepite in senso ambientale ma elaborate dall’artista su carta fin dalla metà degli anni Sessanta, mentre nel “falso labirinto” un faretto semovente sul soffitto nella camera buia guidava l’attore creando un piccolo cerchio sul pavimento in un percorso “tipo labirinto”; il penultimo era costituito da un prato artificiale fluorescente, che immetteva infine in uno stato di estasi gioiosa, mentre, in ultimo, lo spettatore era illuminato da fasci di proiezioni di diapositive colorate poste alle sue spalle, diapositive di “rodhoid rosso carminio, vermiglione, blu cobalto e oltremare scuro, viola bluastro e rossastro scuri, verde smeraldo e bandiera” in modo che la sua ombra proiettata sul muro interagisse con i vari colori.