La genesi di questo ciclo, che si configura come la ripetizione manuale e modulare su carta di un unico segno a inchiostro, una sorta di lettera inventata, è ricordato dall’artista e posta in connessione al genocidio del villaggio palestinese di Tall El Zaatar nel 1976:
“L’estate scorsa seguii angosciata la tragedia di Tall el Zaatar Si sapeva tutto a priori, ma nessuno ha mosso un dito per evitare il genocidio. E tra gli altri, proprio coloro per i quali da bambina mi ero sentita in colpa di vivere, gli ebrei, immemori della spaventosa repressione subita, contribuivano a permettere il massacro. Scrissi una lettera che indirizzai alle donne di tutto il mondo, affinché lottassero per fermare la strage. Se gli “uomini” non sapevano che proporci “soluzioni finali”, che le donne lo impedissero con la forza della loro coscienza diversa. Era mera follia e misi la lettera in tasca.
Piena di rabbia e di dolore impotente mi prese un impulso di tracciare segni. Altro non mi era concesso di fare. Feci ossessivamente linee orizzontali e verticali, ripetute fino a riempire i fogli e poiché il dolore esige pudore, alcuni di essi li coprii. Erano lettere, al posto di quella genericamente e semplicisticamente destinata alle donne che esprimevano la mia inane solidarietà, la mia protesta contro la criminale violenza tanto per cambiare sotto il segno della croce.
Quando si compì la sorte del villaggio palestinese, il 12 agosto, andai su una spiaggia deserta e dopo aver guardato il mare, anche lui insensibile e preso dal suo movimento, cercai un bastone e cominciai a tracciare lo stesso segno delle “lettere” sulla sabbia, per tutto il giorno. Smisi quando fui stremata. Avevo riempito la spiaggia di segni che, me ne resi conto allora, formavano un’acca, che nella mia lingua è la lettera muta. Una protesta scritta sulla sabbia, quanto più labile vi sia.
I giorni successivi tornai a vedere, perché la mia curiosità di artista era altrettanto forte che il dolore e i segni non erano scomparsi, solo sempre meno nitidi e quando partii, ancora qualche traccia era visibile.
Dopo gli “inconsci razionali” disintegrati, ho ricostituito una lettera del mio alfabeto personale, la lettera muta. Altri eventi sono accaduti: persone care sono state o sono gravemente ammalate. II loro dolore lo sento sulla mia pelle e queste lettere sono indirizzate pure ad esse, alla sofferenza dell’umanità, di qualsiasi natura e proporzione.”
Dal 1977 al 1979 l’ “alfabeto della mente” è dunque il linguaggio inventato con cui ogni giorno l’artista esprime il pensiero quotidiano, un pensiero che non diviene scrittura, ma si arresta ancora prima di divenire “parola”, una lettera che ripete se stessa come nella lallazione di un neonato. L’artista non riuscì a inventare le 21 lettere dell’alfabeto, ma ne produsse sedici, denominate semplicemente “lettera 1” “lettera 2” ecc.. Il ciclo si esprime compiutamente in forma installativa su lunghi fogli di cartoncino o su tela già preparata, come delle stele, recanti ciascuno la ripetizione di un’unica lettera, nella mostra personale alla Galleria Annunciata nel 1977. Dadamaino descrive così questo ciclo:
“Riempio fogli e tele di questi segni, non lasciando che minimi spazi marginali senza soluzione di continuità. Posso lavorare per ore ed ore e giorni senza smettere ed anzi, quasi incapace di smettere. Ripeto un solo segno per superficie, perché lo ritengo sufficiente senza legarlo ad alcuno degli altri cinque. Anche di questo ignoro la ragione. So soltanto che un unico segno va ripetuto fino a riempire lo spazio che mi sono data. Poi comincio con un altro segno e così di seguito.
Anche di stesso segno, ogni lavoro è diverso dall’altro. Lavoro a mano libera con la penna, ed anche se tentassi di essere esatta, la mano disobbedirebbe alla mia volontà. A volte il tratto è più sottile, o più pesante; impercettibili tensioni corporee fanno scattare la penna, imprimendo segni leggermente distorti o tremolanti. A volte ancora la penna non dà inchiostro e vi sono tracce evanescenti che mai riprendo ricalcandole. Quando comincio una riga, è il primo segno che solitamente la determina: se è corto, faccio una riga di segni corti, se le dita scorrono, è di segni più lunghi. Lascio fluire la mano liberamente. Così l’insieme appare ora più fitto ed ora più rado, ma non cerco queste diversificazioni che vengono spontaneamente e sono possibili mio malgrado. Per ora questi segni li chiamo “L’alfabeto della mente” perché ritengo siano codici di un linguaggio personale.”